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Se incontrate questo animale vi trovate davanti ad un capolavoro evolutivo: la lampreda

L’avevo vista sui libri di scuola, in un’immagine formato francobollo: capitolo sugli Agnati, coloro che sono “privi di mascelle”. Due righe in croce, su bestie di cui poco si sapeva e si sa anche oggi, e accanto una sorta di mostro scolorito, completamente sbiadito dall’alcool e deformato dalla morte delle sue flaccide carni. Altre volte, mi era capitato di osservarla dentro bocce di vetro, tra gli scaffali polverosi dei Musei di Storia Naturale, in pose altrettanto sgraziate, statiche nella loro immersione all’interno di liquidi conservanti ormai ingialliti. Tutte le etichette riportavano date per me troppo lontane nel passato. “Ce ne saranno ancora in Italia?” mi chiedevo.

Sono passati anni da quel desiderio recondito di vedere una lampreda viva. E, dopo lunghe ricerche a tavolino, analisi di foto satellitari, intuizioni e letture di pubblicazioni scientifiche, mi ritrovo sulla riva del fiume. Sotto il sole cocente, scruto i ciottoli masticati dall’acqua alla ricerca di indizi che mi permettano l’incontro con quell’essere mitologico; i piedi mi fanno male a furia di camminare praticamente in ciabatte, dentro e fuori dalle pozze, lungo i guadi dei caprioli, sotto i rami gentili dei salici nella brezza fresca soffiata fuori dal bosco.

Poi, una sorta di sciarpa che oscilla impazzita sul fondo. Un animale lungo quasi un metro, di colore giallastro con numerose chiazze più scure, il corpo viscido e la testa arrotondata, ben saldata ad un ciottolo, in una corrente impressionante. Mi avvicino con cautela, ma non scappa; anzi, rimane impassibile, come se io non esistessi, forse troppo impegnato a non farsi trascinare via dall’autostrada di acqua che quasi mi impedisce di reggermi in piedi.

Al suo cospetto, posso osservare dal vivo indossando la maschera le caratteristiche sensazionali di una lampreda: due grandi occhi azzurri e opachi, una singola narice, l’assenza di pinne pari e scaglie; una serie di fori branchiali (sette per lato), simili agli oblò di un sommergibile militare ed una bocca priva di mascelle, a forma di disco con molti dentelli cornei, caratteristiche queste che non la rendono accomunabile ai pesci. Altri dettagli non visibili sono altrettanto stupefacenti: la presenza di un terzo “occhio” sottocutaneo, la ghiandola pineale, atta alla percezione delle variazioni di luminosità e alla regolazione ormonale, ed un rudimentale scheletro di cartilagine (lamprina), rendono questi animali primitivi unici nel complesso e soprattutto immutati rispetto ai loro parenti risalenti a centinaia di milioni di anni fa, di rado rinvenuti allo stato fossile.

Ma ancor più spettacolare è pensare al ciclo vitale di queste lamprede di mare (Petromyzon marinus). Dopo un accrescimento da parassiti, durante il quale rimangono attaccate a grossi pesci o a cetacei succhiandone i liquidi corporei tramite la bocca a ventosa coadiuvata dalla lingua dentata a pistone per raschiare, raggiungono la maturità sessuale e smettono di alimentarsi andando incontro a regressione dell’apparato digerente.

A questo punto, migrano per centinaia di chilometri, raggiungendo la foce dei fiumi e risalendoli al fine di raggiungere luoghi idonei alla riproduzione; qui, le coppie di lamprede scavano una depressione sul fondo, spostando con la bocca fino a 10 chilogrammi di ciottoli. Aggiustando la forma della conca con brusche oscillazioni del loro corpo, la rendono idonea ad accogliere le delicate uova, riparate dalla corrente impetuosa ma al tempo stesso ben ossigenate.

Dopo l’accoppiamento e la deposizione, gli adulti muoiono, diventando cibo per molte specie di uccelli e pesci. Dalle uova nascono larve senza occhi visibili (ammoceti), talmente differenti da esser ritenute una specie diversa fino a metà dell’Ottocento; queste passeranno alcuni anni infossate nel sedimento del fiume nutrendosi per filtrazione di diatomee e materiale organico, prima di andare incontro a metamorfosi, diventare piccole lamprede simili agli adulti (transformers), e migrare in discesa verso il mare per iniziare la vita da parassiti.

Questo strabiliante ciclo vitale non è tipico di tutte le lamprede: vivono solo nei corsi d’acqua e non si alimentano da adulte altre specie presenti in Italia, come la piccola lampreda padana (Lampetra zanandreai).

Inutile dire come la costruzione di dighe e l’alterazione degli alvei abbiano influito negativamente sulle specie migratrici, che utilizzano sempre gli stessi luoghi per portare a termine il loro ciclo vitale; l’estrazione di ghiaia e sedimenti in genere, oltre che l’accumulo di sostanze inquinanti, danneggiano gravemente le sensibili larve, utilizzate illegalmente anche come esca ed intensamente predate dai salmonidi introdotti.

In Italia le lamprede erano diffuse fino agli anni ’50, periodo nel quale cominciò il loro inesorabile declino, fino all’orlo dell’estinzione; alcuni progetti di riqualificazione ambientale hanno permesso il loro ritorno in poche localizzate aree, dove comunque le densità sono molto basse e le possibilità di incontro infime. Anche la cattura a scopo alimentare, attualmente vietata, ha contribuito in passato a ridurne gli effettivi: nonostante fossero considerate un cibo regale dai Romani, le loro carni hanno a carico diversi casi di intossicazione, nonché un’illustre morte, quella del re Enrico I. Curiosamente, la lampreda di mare in America settentrionale è specie infestante, poiché nella zona dei Grandi Laghi alcuni canali artificiali hanno fatto sì che la specie si diffondesse e adattasse compiendo la fase parassita in acqua dolce, ai danni di salmonidi di interesse commerciale e quindi della locale attività di pesca, crollata del 99,5% tra il 1940 e il 1960. Un piano governativo apposito partito nel 1955 ha stanziato 10 milioni di dollari l’anno per sperimentare metodi di eradicazione efficaci, tra i quali l’utilizzo di 6000 agenti chimici diversi.

Le lamprede sono interessanti anche dal punto di vista della ricerca, infatti sono state oggetto di studi sia per quanto riguarda i loro movimenti (biorobotica) sia per quanto riguarda la loro respirazione.

Di fatto si tratta di animali diversi da quelli ai quali siamo abituati, ma che vale assolutamente la pena conoscere, sempre rispettando la segretezza dei delicati siti riproduttivi; proprio per questi motivi, avevo deciso di dedicare loro quasi un intero capitolo del mio vecchio libro sulla conservazione dei fiumi, vista anche l’assenza di simili lavori fotografici in Italia.


Marco Colombo

www.calosoma.it

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